gli opposti si attraggono, anche nelle lingue

Può una parola significare una cosa e il suo opposto? Scopriamo cos’è l’enantiosemia

Le parole sanno metterci davanti a delle estensioni di significato davvero estreme, si può persino arrivare al paradosso quando giungono a significare a un tempo una cosa e il suo contrario. È il fenomeno dell’enantiosemia, ed è più comune di quanto si pensi.

di Giorgio Moretti

Le parole sanno metterci davanti a delle estensioni di significato davvero estreme. Si può arrivare al paradosso quando giungono ad avere un significato opposto a quello che ci racconta l’etimologia, o a significare a un tempo una cosa e il suo contrario.

Questo fenomeno porta il nome di enantiosemia, termine composto dal greco: enantios ‘opposto’ e dal tema di semaino ‘significare’. È un fenomeno comune e fascinoso, specie particolare di polisemia (cioè della condizione per cui una parola ha più significati), ma di cui di rado si ha consapevolezza. Facciamo alcuni semplici esempi.

Nell’antica Roma le feriae erano i giorni di festa – e lo sono ancora oggi le ‘ferie’. Ma l’aggettivo ‘feriale’ descrive i giorni lavorativi.
Il verbo ‘cacciare’ può significare sia allontanare sia inseguire, e addirittura ‘ficcare’. L’aggettivo ‘alto’ si attaglia alla levatura del cipresso svettante e alla profondità del mare aperto.

Continuiamo? Tiro la fune verso di me, ma tiro la pietra lontano da me. Se fuggo da te può voler dire che accorro fra le tue braccia o che sto scappando gambe in spalla. L’ospite è sia chi ospita sia chi è ospitato. Se spolvero uno scaffale tolgo la polvere, ma se spolvero una torta ce la sto mettendo sopra – di zucchero o cacao, s’intende. Se affitto una casa, in affitto la do o la prendo.

Ma com’è possibile che avvenga questo fenomeno? Non è un cortocircuito della lingua?  Se la stessa parola significasse giorno e notte, non sarebbe un controsenso che la renderebbe inutile?

Il fatto è che le parole, col loro significato, ritagliano il foglio della realtà. E il ritaglio non ha una faccia sola. Definendo qualcosa che ha un diretto opposto, anche l’opposto può esserne definito. Il moto del cacciare si apre in una dispersione o si chiude in un ficcare. Ritagliata l’altezza, vale sopra la terra e sotto il mare. L’affitto è uno, con due parti; l’ospite offre, l’ospite prende, il rapporto è sempre uno.

Ovviamente, l’enantiosemia è un fenomeno compare anche in altre lingue. Ad esempio l’inglese ha una valanga di parole enantiosemiche – da left che significa sia andato via sia rimasto, a custom, sia consuetudine condivisa sia personalizzazione.

La comprensione di questo fenomeno universale del pensiero è di importanza cardinale: quando ritagliamo un concetto ne ritagliamo anche l’opposto.

(http://www.fanpage.it/puo-una-parola-significare-una-cosa-e-il-suo-opposto/)

il mio sogno anòdino

Capita a volte di leggere un testo in cui ricorre una parola che proprio non ti torna. non puoi dire di non conoscerla, solo che in quel contesto prorio non ci azzecca.

e invece ci azzecca, magari per traslato, magari per sineddoche, magari solo per ignoranza mia che non capivo perchè uno scrittore codino avesse scritto opere anòdine.

il perchè stessi leggendo una Storia della Letteratura spagnola del ‘700, invece, è presto detto:

a giugno dovrebbero esserci le prove di ammissione al TFA, tirocinio formativo attivo, quindi è partita la girandola assurda della corsa al recupero di tutto quanto ingurgitato e rivomitato all’università, e nel mio caso anche l’amara consapevolezza che se voglio frequentarlo – nel caso passassi – dovrò andarmene da Cosenza, in quanto qui la classe di insegnamento per lo spagnolo semplicemente non c’è!

e di nuovo case in affitto, e di nuovo vita da studente, e di nuovo lavori del piffero, e di nuovo un sogno da inseguire. alla mia età, non sarò troppo vecchia per inseguire un sogno?

è nato prima il buco o chi ci si infila? (conigli&ciambelle)

cucù

il fatto che in fiorentino il coniglio venga chiamato “conigliolo” mi ha sempre fatto sorridere, pensavo fosse una storpiatura vezzeggiativa, come accade con “figliolo” …. se in Toscana le cose si chiamano come si chiamano, però, c’è sempre un motivo sotto, come ho avuto modo di rendermi conto mille e mille volte, e in questo caso la parola conigliolo riflette ancora meglio di coniglio l’etimo della parola, dal latino CUNICULUS, che vale tanto per l’animale quanto per via o foro sotterraneo (da cui “cunicolo”).

Per traslato, dunque, l’animale viene identificato con la sua tana, poichè l’abitudine di scavare cunicoli lo caratterizza e lo identifica.

Cosa bizzarra, o forse no, durante un corso di Filologia Romanza alla Complutense la docente ci fece notare come il coniglio e il cunicolo condividessero la radice etimologica anche con la parola latina che  indica popolarmente i genitali femminili,  cunnus (cosa cava, fessura, buco), da cui il castigliano coño e il francese con, e non solo: in tutti i nostri dialetti meridionali u cunnu significa la stessa cosa.

E non è un caso, ovviamente, che il coniglio (e la lepre con esso) sia un animale archetipo del mondo simbolico sessuale, del bestiario selenico, associato alla semantica della fertilità. Anche la festività della pasqua nelle sue origini pagane (si celebrava Eostre, dea assimilabile a Venere, e la parola per Pasqua in inglese è appunto Easter) vede la lepre associata alle divinità della luna, dunque ai cicli della fertilità.

E, cosa interessantissima, in Sicilia si fa ancora un pane che, ci spiega Gino Carbonaro (e mi compiaccio della scoperta del suo blog!!!!) è dedicato a Démetra, la Dea Mater che ha fatto scoprire all’uomo i frutti e i cereali. Questo pane si chiama appunto cuđdùra:

Cúnnus o cunnùra, in latino, era anche il nome di un pane, che aveva la forma compatta del sesso femminile. Quando le donne finivano di impastare la farina, davano una forma vagamente ovale al pane, quindi segnavano il centro con un colpo della mano a taglio, infine ripassavano la parte incavata con un coltello: era il taglio, che durante la cottura nel forno, si allargava lentamente, e si arricciava e si indorava al centro (riđdu) prendendo la caratteristica forma del cunnus.        (…)

Questo pane, solitamente di orzo (nella Grecia di una volta) e di grano duro (in Sicilia), si fa tuttora in quasi tutti i paesi della provincia di Ragusa e ne conserva la forma, trasmessa dalla tradizione, e il nome: cuđdùra (e/o cunnùra).

E allora mi è proprio venuto spontaneo pensare, e speriamo che Gino mi legga e mi risponda, ai cúđduriađdi cosentini, che sono ciambelle salate e fritte di pasta di patate, tipiche della vigilia di natale: servono a spezzare il tradizionale digiuno del 24 dicembre in attesa dell’abbondante cena.

la pronuncia del nome distingue i cosentini doc dai limitrofi, perchè bisogna essere indigeni per riprodurre il suono cacuminale della d!! Spesso si vede la grafia “cuddruriaddri” e fuori da Cosenza, in Sila ad esempio, li chiamano Cullurialli o Cullirielli, perchè il suono cacuminale nella loro varietà dialettale non esiste.

Quello che mi chiedo è se le nostre ciambelle cosentine si chiamino così perchè sono dei piccoli pani con un buco nel centro, così da rappresentare una forma propiziatoria e ben augurale!

In ogni caso, linguistica a parte, vi posto la ricetta presa da un blog carinissimo e corredata di foto ….. buon appetito!